sábado, 18 de febrero de 2017

L'UNIVERSO DI WINSTON MORALES CHAVARRO E L'IDEAZIONE DI UNA NUOVA GENESI




ANTIDA VETRANO
Università degli Studi della Calabria
Facoltà di Lettere e Filosofia
Calabria-Italia.

Non v'è causa d'errore più frequente che
la ricerca della verità assoluta.
S. Butler, Taccuini




4.1 Winston Morales Chavarro


Winston Morales Chavarro nasce a Neiva Huila, in Colombia, nel 1969. Narratore, poeta e saggista, oggi, all'età di 36 anni, è uno dei migliori artisti colombiani, motivo per il quale ha ottenuto speciali riconoscimenti e vinto numerosi concorsi letterari, tra cui Poesía Organización Casa de Poesía (1996), i Concorsi Dipartimentali del Ministero della Cultura (1998) e, nel 2000, ha rappresentato il suo Paese al I Festival di Cultura Colombiana a Milano, in Italia. La sua ricca carriera lo vede anche comunicatore sociale e giornalista, nonché direttore editoriale e fondatore del quotidiano Neiva; ruoli che si affiancano a quelli di co-direttore della rivista Indice de Literatura, di membro del consiglio editoriale della Revista Hojas Sueltas-Neiva e di corrispondente del periodico spagnolo Alhucema.


Lettore appassionato di autori quali Virgilio, W. Blake, J. Milton, J. W. Goehte e C. Milosz, Winston Morales Chavarro è fermamente convinto del fatto che filosofia e poesia abbiano un'origine comune e che, mediante una voce esterna, un “alito poetico”, il poeta abbia libero accesso alla conoscenza soprasensibile. È per questo che, pur apprezzando Romanticismo, Simbolismo e Surrealismo, egli non si identifica in nessuna corrente letteraria o scuola di pensiero, ma ritiene di aver subito solo l'influenza della filosofia trascendentale e dei principi ermetici.


Degne di menzione sono le sue antologie, quali Crónica Poética del Huila e Nuevas Voces de Fin de Siglo, ma è grazie alle opere poetiche che Winston Morales Chavarro deve il proprio successo. Difatti, Aniquirona (1998), De Regreso a Schuaima (2000) e Memorias de Alexander de Brucco (2002) vengono considerate delle opere pregevoli, in quanto racchiudono l'essenza del suo pensiero. La particolarità insolita che anima la poesia di questo autore colombiano è una serenità violenta, un contrasto del quale egli si serve per descrivere le molteplici situazioni di una realtà instabile. Tale ossimoro, infatti, evidenzia la determinazione che egli dimostra nell'opporsi all'ambiente circostante, che spesso cerca di assoggettarlo alle leggi dell'ipocrisia sulle quali si regge. Chavarro, però, trova il suo punto di forza in una tranquillità sobria, ma allo stesso tempo ostinata, che gli consente di reagire e di non essere sopraffatto da un mondo in contraddizione ed incoerente. Tutto ciò viene contornato da un lirismo semplice e da un'intensa ispirazione religiosa, che trae spunto dalla Bibbia, di cui il poeta si avvale per cercare di attribuire alle cose l'esatto valore, evocando sogni e tormenti, pene e felicità.






4.1 La trasfigurazione di un mondo: Aniquirona e De Regreso a Schuaima



Nonostante abbiano fatto la prima apparizione a due anni di distanza l'una dall'altra, Aniquirona e De Regreso a Schuaima sono due raccolte di poesie saldamente congiunte tra loro.


Aniquirona è un'opera essenziale per capire lo sviluppo e la crescita artistica di W. Morales Chavarro. In questa raccolta di poesie, apparsa nel 1998, si assiste all'evoluzione letteraria del poeta, che culmina con il raggiungimento di una saggia maturità: egli dà libero sfogo alle idee ed alle emozioni più profonde, seguendo l'esempio di uno scrittore cileno del Novecento, V. Huidobro, secondo il quale il poeta altri non è che un piccolo Dio con il compito di inventare continuamente il mondo. Anch'egli, quindi, crea il proprio universo: Aniquirona, donna e mito, carne ed immaginazione, voce e silenzio, frutto dei suoi sogni più intimi e segreti. Alla base di questo nuovo mondo si ritrova l'idea che l'autore ha della donna: attribuendole una sorta di deismo e di magnificenza, W. M. Chavarro vuole rendere omaggio non ad una in particolare, bensì all'intero genere femminile.


Egli non crede nella differenziazione in poli opposti, poiché sostiene, invece, l'esistenza di un'unica specie divisa in "gradazioni" differenti: di conseguenza, la femminilità sarebbe un altro grado di ciò che si conosce come genere e lo stesso vale per la virilità. In tal caso, oltre ad essere presenza onirica della femminilità, Aniquirona simboleggia la poesia, la morte, la natura e la storia. In ogni componimento, e di volta in volta in modo differente, siffatta Creatura rappresenta l'archetipo nel quale si fondono la necessità del tutto ed una voglia intensa di eliminare il tempo e le frontiere della vita e della morte; icona del perturbante, Aniquirona è ad un tempo corporea ed invisibile, concreta e sconosciuta. Inoltre, la fiducia energica che l'autore ha nei poteri del sogno e dell'immaginazione mette ben in evidenza la forte carica di desiderio e di eros sprigionata da questa nuova Eva.


Il punto di partenza dei poemi di Aniquirona è rappresentato dall'idea che W. Morales Chavarro ha della Poesia: essa è un cammino che accompagna il poeta per tutta la vita e, derivante dall'incontro delle sensazioni del tempo con i suoni dello spazio, fonde realtà ed immaginazione. Da questa unione viene fuori un nuovo mondo, basato sulla naturalezza e sulla spontaneità, dove la natura si trasfigura ed abbandona la triste opacità dei suoi elementi per farli rivivere sotto forma di immagini appartenenti alla luminosità magica. Di conseguenza, dimorando in un ambiente trasfigurato, Aniquirona diventa il simbolo della donna, della magia e del fuoco delle cose e, dunque, anche un inno alla naturalezza. Una simile voglia di semplicità e di ingenuità deriva dal bisogno che l'artista sente di allontanarsi dal caos e dalla mediocrità della società odierna, contornata da molta apparenza e da poca profondità, dove tutto è un mero spettacolo, mentre la cultura viene lasciata sempre più in disparte. Avvalendosi di un linguaggio esuberante e passionale, associato a forme limpide e vivaci, W. M. Chavarro dà vita ad una scrittura gradevole ed intensa. Proprio mediante la sua schiettezza mette in discussione le verità assolute e ricorda al genere umano che la sua presenza breve e fugace nella vita terrena ha un prolungamento solo ed esclusivamente nella poesia.





La seconda raccolta più importante dell'autore colombiano, De Regreso a Schuaima, pubblicata nel 2000, è strettamente collegata alla prima, in quanto le sue poesie descrivono la regione, inventata, in cui abita Aniquirona. Più che di un mondo onirico si tratta di una vera e propria forma di distacco dalla realtà circostante, con l'intenzione di far sentire la sua presenza sempre attiva, tanto da sfociare in una sorta di misticismo e di trascendentalismo a priori.


Se Aniquirona incarna la Donna, Schuaima rappresenta il Luogo per eccellenza nel quale ella dimora, o meglio, l'Utopia. Si tratta del luogo della memoria, profumato e ricco di fiumi, di vulcani e di luce, dove le cose acquistano maggior valore se percepite attraverso l'olfatto. Si tratta, quindi, di un mondo che scavalca i limiti della quotidianità e del mediocre, di uno spazio accessibile tramite gli sdoppiamenti dell'io e la ricerca febbrile di un linguaggio che si trasfigura per sfuggire alle ossessioni ed alle paure della notte. Inevitabilmente, alla notte si associa la morte, tema molto ricorrente nella poetica chavarriana ed al quale l'autore si approccia provando una duplice sensazione di timore e di fascino.

Tuttavia, la ferma convinzione che essa sia semplicemente un ponte che conduce a volte verso la fine, altre verso la vita, fa sì che il poeta non si scoraggi davanti alla sua minaccia; al contrario, egli trova nell'arte e nella cultura in genere la forza per andare avanti, tanto da sperimentare una morte differente, una "Morte viva", che lo guida fino al regno di Schuaima. Variante originale del paradiso edenico, questo nuovo mondo rappresenta un ritorno alle origini (implicito già nel titolo stesso dell'opera), una riconciliazione con la natura, che ora parla la stessa lingua del poeta, dove ogni cosa è fresca e vitale, lontana dal grigiore e dalla tristezza dello spazio terreno.


Tale processo creativo inizia con Aniquirona: è lei la chiave di accesso al regno dell'aldilà, colei che ispira l'autore nella composizione di ogni sua poesia, accompagnandolo per tutto il viaggio che porta a Schuaima. In realtà, W. M. Chavarro si serve di questa guida "eterna" per sottrarsi anch'egli all'oblio, sentendo l'irrefrenabile desiderio di restare impresso per sempre nella memoria altrui e di infrangere qualsiasi barriera spazio-temporale.


Nelle raccolte di W. M. Chavarro s'incrociano due correnti: una rappresentata dal mondo onirico, che dà vita a Schuaima e ad Aniquirona, l'altra evidenziata dal substrato religioso, che rivela un'analisi demitizzante dei personaggi biblici. Entrambe si nutrono reciprocamente e senza contraddirsi grazie all'uso del linguaggio e della costante della morte come processo vitale.







4.1.1 Memorias de Alexander De Brucco



 Nel 2002 Winston Morales Chavarro pubblica un'altra raccolta di poesie: si tratta di Memorias de Alexander De Brucco, l'ennesimo tentativo da parte dell'autore colombiano di contrapporre all'ostinata asprezza della vita la dolcezza e la serenità della parola. Come per Aniquirona e De Regreso a Schuaima, anche in questo caso si tratta una raccolta anonima: le trentuno poesie che la compongono sono scritte da un autore fittizio, Alexander De Brucco appunto, che si nasconde dietro ciascun verso, evitando accuratamente di lasciare tracce che consentirebbero di identificarlo. I suoi versi riguardano tutti i protagonisti biblici più importanti: Adamo, Eva, Caino, Abele, Noè, vengono qui "modernizzati", rappresentati, cioè, in relazione alla contemporaneità. L'autore non crede nelle verità assolute e, di riflesso, i suoi personaggi difettano sia del rigore del cattolicesimo, che di qualsiasi riverenza nei confronti dei paradigmi e dei dogmi prestabiliti.


Ogni componimento è guidato da un senso cronologico e coerente che lo ricollega al successivo, consentendo al lettore di esplorare l'universo poetico del testo completo. Ecco allora che il poeta riesce ad attirare l'attenzione di chi legge verso gli echi della storia sacra, impiegando un linguaggio spontaneo e colorato che si dimostra in grado di andare oltre la fugacità e la fragilità delle cose e che sconfigge quelle sensazioni di inquietudine e di incertezza nocive alla vitalità umana.


Al pari di Aniquirona e di Schuaima, anche le Memorie descrivono un universo particolare e personale, avvolto da un mistero apparentemente irrazionale, ma in realtà genuino; si ha di fronte uno spazio aperto, dove la natura esprime la propria tipicità mediante uccelli incantati, essenze celesti e canti magici provenienti da boschi e fiumi. Uno scenario del genere non può che richiamare alla mente l'Eden perduto, dal quale tuttavia si differenzia per una ragione fondamentale: mentre nel giardino edenico Adamo ed Eva si sono macchiati di una colpa, in quello chavarriano, invece, ci si riscatta dal peccato commesso, riuscendo quasi a recuperare quella condizione idilliaca rimpianta per tanto tempo. Tale somiglianza dà vita ad una sorta di parallelismo biblico che vede, da un lato, un testo cristiano di evidente stampo patriarcale, dall'altro, una scrittura pagana fiduciosa, una Bibbia del futuro che esplora il mondo dei racconti sacri sotto una prospettiva interamente ottimista. Amalgamando tradizione e poesia, W. M. Chavarro propone la riscoperta e la narrazione di tutte le leggende bibliche, alle quali conferisce un nuovo significato che accosta il dato storico all'esperienza quotidiana dell'uomo, riconciliando storia e vita.


A questa breve analisi va aggiunto un elemento fondamentale, di inconfondibile stile chavarriano: la poesia che interessa e stimola l'autore colombiano è quella "narrativa", che racconta, cioè, grandi eventi ed imprese straordinarie, evidenziando, così, un intenso vigore letterario. Un simile modo di fare poesia si contrappone a quello più classico e più facile della poesia "fotografica", atta unicamente ad immortalare un semplice istante, un amore effimero che si perde nel tempo. Ecco il motivo per cui l'unica corrente letteraria seguita da W. M. Chavarro è stata quella della parola, soprattutto per la sua ferma convinzione che chi scrive dei versi rappresenti un semplice strumento, un canale tramite il quale si diffonde il mare magnum della Poesia.



4.1 L'audacia di una donna: A Eva en el destierro (A Eva in esilio)


Qué hermosa es Eva Bella è Eva
Qué hermosa la serpiente que le rodea Bello il serpente che la circonda
El árbol que crece en su talle L'albero che cresce nella sua vita
El frutto carnoso que despliegan sus Il frutto carnoso che le sue labbra
labios mostrano
Al posar sobre la ocarina Mentre poggiano sull'ocarina
Su música en las orillas del bosque. Musica al confine del bosco.
Qué hermoso su cabello Belli i suoi capelli
-Grajillas oscuras que caen sobre sus -Corvi scuri che ricadono sulle sue
hombros perfumados- odorose spalle-
su nariz que respira otros mundos il suo naso che respira altri mondi
y crea para tantos laberintos e crea per così tanti labirinti
el azahar y las guirnaldas que los i fiori e le ghirlande che li
sostituya. sostituiranno.


Qué hermosa es Eva Bella è Eva
Qué hermosos sus tobillos Belle le sue caviglie
Las huellas que dibuja sobre la arena Le orme che disegna sulla sabbia
Para marcar el camino hacia la luz y Per tracciare il cammino verso luce
hacia las sombras. ed ombre.
Qué hermosos los hijos que le ha Belli i figli che ha scaraventato nel
arrojado al mundo mondo
El río que desciende por las colinas de Il fiume che discende le colline del
su vientre suo ventre
El volcán de sus ojos de fuego. Il vulcano dei suoi occhi di fuoco.
Qué hermosa esta costilla pensante Bella questa costola pensante
Este polvo sagrado Questa polvere sacra
Esta caña aromática Questa canna aromatica
Que guarda en sus pechos fragantes Che custodisce nei suoi fragranti
semi
Otra manzana para las épocas de Un'altra mela per le stagioni di
lluvia. pioggia.



La terza raccolta di W. M. Chavarro esordisce con una poesia dedicata ad Eva, prima donna e madre del genere umano, e dà inizio, così, alla sequenza logica e cronologica che narra le vicende dei vari personaggi biblici. Questi ultimi, però, vengono raffigurati sotto una prospettiva più umana, che ne evidenzia al contempo la fragilità, poiché soffrono e si disperano come ogni uomo, e la speranza, in quanto attribuiscono un valore edificante e positivo agli sforzi della vita terrena. La lettura della poesia (e del libro intero) non risulta noiosa e stucchevole, in quanto, grazie all'uso di una varietà assortita di luci, di colori e di sfumature, De Brucco-Chavarro musica ed esalta ogni singolo verso, evitando qualsiasi tipo di giudizio moralista e conferendo a tutto il contenuto energia e dinamismo.


La motivazione principale che ha indotto questo autore a scrivere una poesia su Eva è il rispetto che egli ha per la donna in genere e, tramite i suoi versi, ha sentito la necessità di reintegrarla nella società dalla quale è stata esclusa. Egli è convinto che la colpa di tale alienazione sia da imputare alla religione moderna, interamente al maschile e, soprattutto, fondata sui pregiudizi nei confronti del genere femminile o meglio, per usare un'espressione chavarriana, dell'altro "grado". Lo scrittore mira a ripristinare il riguardo di cui la donna godeva al tempo degli Egizi e dei Greci, quando il binomio femminilità-naturalezza era indissolubile ed ossequiato, nonché a renderla nuovamente parte attiva di una società dalla quale è stata emarginata ed usata alla stregua di un oggetto senza importanza.
Nonostante il deciso rifiuto da parte dell'autore sudamericano di qualsiasi forma sia di retorica che, al contrario, di laconicità, A Eva en el destierro è un componimento molto ricco, non solo dal punto di vista contenutistico, ma anche sotto il profilo simbolico. Il testo, che già dal titolo rende noto il soggetto di cui ci si accinge a parlare, presenta una tripartizione piuttosto netta: la prima parte (vv. 1-6) fa riferimento al peccato originale; il secondo segmento (vv. 7-15) descrive le qualità fisiche della prima donna; infine, nella terza unità (vv. 16-23) vengono presi in considerazione sia il rapporto che Eva ha con l'intero genere umano, sia quello che la lega ad Adamo.


Nella prima parte, dunque, W. M. Chavarro trova il modo di sintetizzare in quattro versi ciò che è accaduto poco dopo la Creazione e lo fa abilmente, avvalendosi di termini esplicativi ed esaurienti. Il verbo circondare, ad esempio, sottolinea come Eva sia stata letteralmente "rapita", "catturata" dall'astuzia dell'ofide tentatore; quest'ultimo, cingendo l'albero proibito, se n'è finto il custode ed ha spinto la donna a peccare per ottenere trasversalmente quella conoscenza che prima era solo una prerogativa divina.


I due sensi che qui vengono chiamati in causa mitigano sia la tentazione che la colpa: espressa dalla reiterazione dell'aggettivo bello-bella, la vista mette in risalto il momento più significativo ed intenso della scena edenica, senza manifestare nessun segno di giudizio o di condanna. A ciò si aggiunge la funzione svolta dalla musica, denominata anche la "meta-erotica" , che consiste nel conciliare i contrari e nel dominare la fuga inesorabile del tempo; ruolo, questo, che la rende lo sbocco razionalizzato di qualsiasi immagine carica di affettività, nonché del gesto sessuale. Non è un caso, quindi, che in tale contesto l'ocarina sfiorata per diffondere nel bosco un suono lento e dolce venga associata alle labbra che mostrano con fierezza il frutto carnoso e che entrambe rappresentino l'icona della sensualità.







4.1.1 Un fascino enigmatico



 La seconda unità è dedicata alla descrizione fisica della sposa di Adamo ed il primo elemento ad esserne messo in risalto è la capigliatura. Quest'ultima, intimamente associata all'acqua ed a tutto il genere femminile, rappresenta una delle armi più forti della donna; di conseguenza, tenerla sciolta o annodata, visibile o nascosta può essere chiaro segno di disponibilità o di riserbo. In questi versi i capelli di Eva ricadono sulle sue spalle: ciò significa che li porta sciolti, a mo' di provocazione sessuale, ed a partire da tale sfida l'autore lascia presagire l'incombenza di un'ombra che l'accompagnerà per tutto il resto della sua vita.
Nasce spontaneo il richiamo ad un complesso ben noto in psicanalisi, quello di Ofelia, una fanciulla morta annegata in un ruscello a causa delle sue vesti zuppe d'acqua e la cui chioma fluttuante ha logorato poco per volta l'immagine della sua anima. Pertanto, legata all'idea del tempo irrevocabile che è il passato, la capigliatura "vivente" descritta da W. M. Chavarro evoca un movimento, “un'onda che passa, [...] che freme” , così come fremente e contaminato è, ormai, il cuore di Eva. Va aggiunto che, richiamando l'acqua corrente per via del suo movimento, il simbolismo della capigliatura rafforza l'immagine della femminilità fatale e teriomorfa ed assume, al contempo, una prospettiva negativa ed infelice. In un simile contesto, l'acqua femminile diventa “elemento melanconizzante” e culmina in un “nulla sostanziale” da cui è impossibile venire fuori.


Il presagio negativo viene introdotto dal poeta mediante una metafora in presentia che accosta i bei capelli di Eva a dei corvi scuri: come afferma G. Bachelard, l'acqua “si stinfalizza” e, mostrando il suo aspetto triste e tenebroso, viene qui trasformata in “materia della disperazione” . Dal punto di vista simbolico, il corvo presenta numerose contraddizioni: chiaroveggente e profeta, uccello solare e misterioso, a volte salva e difende, altre è nunzio di morte; ambivalenza, questa, strettamente collegata alle sue diverse proprietà fisiche, ognuna delle quali viene impiegata a seconda del contesto da analizzare. L'ala, strumento ascensionale per eccellenza, lo rende icona di una sottile perspicacia, nonché di un'intensa voglia di solitudine, di quell'isolamento volontario desiderato da chi ha deciso di vivere su un piano superiore. Inoltre, il fatto che i capelli di Eva siano privi di luce crea inevitabilmente un collegamento con quello che viene definito il "contro-colore di ogni colore" , ovvero il colore nero, inteso, qui, nella sua accezione negativa. Associato alle tenebre primordiali, infatti, il nero rappresenta la perdita definitiva di qualcosa ed in questo caso simboleggia il perenne esilio dal giardino dell'Eden, la caduta, senza ritorno, nel Nulla.


Nonostante il suo profondo legame con la morte e la sepoltura, il Nero si collega anche alla promessa di una vita rinnovata, al pari della notte che trova la sua speranza nell'aurora e dell'inverno che ripone la sua fiducia nella primavera. Il simbolismo di "peccato, angoscia, rivolta e giudizio" di tale colore scuro viene smorzato dall'aggettivo bello, che ricorre per tutta la poesia, quasi ad allontanare la tristezza dovuta alla perenne condizione errante del personaggio principale ed a creare un'atmosfera più distesa e serena rispetto a quella respirata nella Genesi.


I capelli che la femme fatale tiene sciolti cadono lunghi sulle sue odorose spalle: il simbolo per antonomasia della virilità si trasforma, qui, in emblema della potenza seduttiva femminile, che diventa imbattibile se associata al potere disarmante del profumo, elemento terreno connesso con il ricordo e la memoria. Il naso, altro riferimento all'olfatto, è il simbolo della chiaroveggenza: alludendo al titolo, De Brucco descrive una donna condannata ad un esilio eterno, obbligata ad affrontare numerose difficoltà (labirinti) prima di unirsi in matrimonio e dar vita a quella prole (i fiori e le ghirlande) che, come lei, vivrà in altri mondi, nella speranza di cambiarli e di renderli migliori. Sottolineando la bellezza del “nodo del piede” , ovvero della caviglia di Eva, l'autore spiega come la madre lascerà le sue orme sopra la sabbia, materia plastica e malleabile, e perciò “simbolo dell'utero” . Toccherà, poi, a ciascuno dei suoi figli scegliere autonomamente il cammino da seguire: andare verso la salvezza, la felicità e la vita (quindi la luce) o procedere nel senso opposto, dirigendosi incontro al regno delle tenebre, emblema di perdizione, di disgrazia e di morte.




4.1.1 Una nuova stagione



I versi conclusivi di questa poesia mettono in evidenza il rapporto che lega la prima donna ad Adamo e ribadiscono ancora una volta qual è il suo ruolo principale: essere la madre di tutto il genere umano. Infatti, come il fiume è congiunto contemporaneamente alla fertilità, alla morte ed al rinnovamento, costituendo “il simbolo dell'esistenza umana e del suo scorrere" , così il latte che sgorga copioso dal seno di Eva deve nutrire e rendere vigorosi i figli nati dalla sua unione con l'uomo che le ha dato la vita. L'idea di madre protettiva e benevola, evocata anche dal termine ventre, luogo di difesa e di tenerezza, contrasta con il verbo scaraventare del v. 16: qui, infatti, si ha l'impressione di trovarsi di fronte ad una donna indifferente e crudele, che improvvisamente abbandona la sua prole per offrirla in pasto a quell'ambiente affascinante e ad un tempo insidioso che è il mondo.


Occorre notare come siffatta creatura, bella e pericolosa insieme, sia animata da una grande passione, definita al v. 18 come un vulcano che acceca i suoi occhi di fuoco, gli stessi che ella ha “aperto” per la prima volta nel momento in cui ha mangiato del frutto proibito. A questo punto, si può notare, per estensione, una specie di analogia tra il complesso di Empedocle esaminato da G. Bachelard e quello che si potrebbe definire il complesso di Eva. Difatti, al pari di Empedocle, gettatosi nell'Etna quasi a volersi purificare, offrendo, così, una delle più grandi immagini della "Poetica dell'annientamento" , il vulcano che si trova nello sguardo di Eva mette in risalto la sua voglia di libertà, nonché il suo desiderio di effettuare quel "salto" che la condanna, sì, ma la purifica e la libera allo stesso tempo. Equiparando la grandezza del fuoco, anche la donna chavarriana compie un atto immotivato, degno unicamente di uno spirito cosciente della propria solitudine assoluta, e dà vita, così, a quel “cosmodramma vero” che secondo il filosofo francese rappresenta l'unica possibilità offerta all'uomo per esprimere la sua libertà.


De Brucco-Morales Chavarro conclude questa sorta di excursus a ritroso, iniziato con la scena del peccato originale e proseguito seguendo le tracce di Eva, illustrando il momento della creazione della coppia edenica. Tuttavia, si tratta di una coppia completamente diversa rispetto a quella genesiaca: da una parte, si ha la polvere sacra dalla quale è stato tratto Adamo, essere pensante la cui presenza resta implicita per tutto il componimento e che contrappone la razionalità virile all'istintività femminile. Dall'altra, e questo è l'aspetto più importante, la donna, qui descritta come una canna aromatica, emblema di fragilità e di flessibilità, non è più la sposa tentatrice ed infedele, ma la custode del frutto della salvezza. Non è un caso che si tratti proprio di una mela, lo stesso frutto che il serpente ha usato per tentare Eva, da mangiare, questa volta, durante le stagioni di pioggia; l'acqua che discende dal cielo, infatti, rappresenta la fertilità dello spirito e la luce, come pure la grazia e la salvezza. Ecco, quindi, che la nuova mela si oppone a quella vecchia, per la quale è stato commesso il peccato, e viene gravata del difficile, ma possibile compito di riscattarsi dall'errore originario.


Esaminata sotto questa nuova prospettiva, la donna rappresentata da W. M. Chavarro elude qualsiasi forma di peccato, di condanna o di persecuzione ideologica; personaggio primordiale, viene contemplata con gli occhi del sogno e del poetico, mentre una freschezza ed una vitalità naturali le concedono la possibilità di dar vita ad una nuova Genesi.





domingo, 5 de febrero de 2017

EL TIEMPO Y EL SENTIMIENTO DEL TIEMPO




EL TIEMPO Y EL SENTIMIENTO DEL TIEMPO

UNA APROXIMACIÓN AL LIBRO   ¿A DONDE VAN LOS DÍAS TRANSCURRIDOS?
DE WINSTON MORALES CHÁVARRO




Debo darle las gracias al poeta Winston por elegirme para presentar su libro de poemas “A dónde van los días transcurridos?” que mereció el Premio Internacional de Literatura David Mejía Velilla, otorgado por la Universidad de la Sabana en el 2015.  Darles las gracias también a ustedes por asistir a este acto de reconocimiento y respaldo a nuestro paisano y amigo que durante tantas décadas se ha dedicado al oficio de escribir.

He titulado mi intervención “El tiempo y el sentimiento del tiempo” para referirme al libro ¿A dónde va los días transcurridos? porque me parece que desde el título y los primeros versos se nos está planteando la existencia del hombre a partir de un concepto lineal y finito del tiempo; y por qué ese mismo concepto da origen a un sentimiento de angustia que aflora en la mayoría de los poemas.

Pero antes de entrar en el análisis de la obra, quisiera contarles una anécdota y a partir de ella plantear otros asuntos sobre el tema del “Tiempo” que pretendo desarrollar. Creo que fue en la adolescencia en donde tuve el primer estremecimiento frente al tiempo. Acostumbraba a deambular solo por los postreros en busca de paz interior. Yo era en ese entonces un adolescente muy atormentado.  Una vez vi la hierba mecida por el viento como nunca antes la había visto. Es decir, tuve por primera vez noticia de su existencia como ser vivo frente a mí.  Hubo cierto sentimiento de hermandad y de consideración mutua.  Recuerdo haberle preguntado: “Dime, hermana, ¿estabas ahí cuando yo nací? ¿Estarás mañana? ¿Y dónde está el bosque que cubrió estas tierras? ¿Ha donde se ha ido?”

Con los años, recordar esta anécdota me produce risa sobre todo después de leer a Wislawa Szymborska, la poeta polaca, premio nobel de literatura 1996.  Ella tiene un poema llamado “Las nubes”. En él afirma que las nubes pasan sobre nuestras cabezas sin importarle mucho nosotros; inclusive que nos podemos morir y ellas siguen como si nada hubiera pasado. Wislawa escribe con brillante ironía,

Que exista la gente si quiere,
y después que se muera uno tras otro,
poco les importa a las nubes
esas cosas
tan extrañas.

Sobre todo tu vida
y también la mía, aún incompleta,
desfilan pomposas igual que desfilaban.

(Las nubes)
No tienen la obligación de morir con nosotros.
No necesitan ser vistas para poder pasar.


Lo gracioso de la anécdota que les refería sobre la hierba era que estaba interrogando a un ser al que yo le importaba tanto como un pepino. Aún más, no necesitaba de mí para existir, no era necesario que yo la llamara “hierba” y mucho menos estar presente el día de mi nacimiento. La hierba que vi en la adolescencia, al igual que la nube de Wislawa poco les importa que ustedes o yo existamos. Simplemente existen. Eso es todo.

Podemos considerar que estos razonamientos son sólo un recurso ingenioso de la Wislawa Szymborska para crear el poema. Pero no es tan inocente ni tan gracioso como parece. En el fondo de sus palabras palpitan las ideas del matemático Pascal y su teoría del hombre como “caña pensante”.
Pascal afirma que frente al universo, el hombre es tan frágil como una caña. Cualquier cosa podría destruirlo. El cielo raso, por ejemplo, que está suspendido sobre sus cabezas podría caer en este instante y aplastarlos a todos ustedes.  Pero, afirma el pensador, aunque el cielo raso sea más poderoso que ustedes, ustedes son más noble que él porque piensan, tiene consciencia de sí y del universo. Por supuesto, al universo le importa un pito que tengamos consciencia y que seamos las criaturas más nobles de la creación.

Como lo dije anteriormente, Wislawa retoma a Pascal y se burla de todos, incluyendo de las nubes y la hierba de mi adolescencia. Pero al margen de la risa que provoque, Wislawa y Pascal también hacen evidente una de las razones por las cuales el hombre sufre: la consciencia. La conciencia de sí, de los otros y de lo otro. Es esa misma conciencia la que le permite al hombre percibir un mundo cambiante, el fluir de la vida que siempre termina en la muerte. La consciencia crea el concepto de tiempo con su bien conocido pasado, presente, futuro; y al crearlo abre las puertas para que entre la angustia.

Winston retoma tanto el concepto del tiempo lineal como su angustia que de él emana. Se emparenta con Heráclito cuando éste afirma “que no es posible descender dos veces al mismo río… (y) a quien desciende a los mismos ríos le alcanzan continuamente nuevas aguas”. Y también con Jorge Manrique cuando, en Coplas a la muerte de mi padre, afirma que,
Nuestras vidas son los ríos
que van a dar en la mar,
que es el morir.

Tanto Manrique como Winston Morales recurren a un tópico muy antiguo en la literatura denominado “Fugit irreparabile tempus”, el tiempo pasa irremediablemente. El poema III del libro ¿A dónde van los días transcurridos? ilustra perfectamente esta afirmación:

Y pensar que nada permanece
Que todo lo dicho es como una flecha arrojada al viento.
Que incluso las palabras son evanescentes,
Frágiles ante los labios que las pronuncian
Pero que pudieron (debieron) callarlas.
Todo es fugaz:
La mano levantada
El puño aferrado
La boca hambrienta del deseo. Nada queda:
Lo lógico es la impermanencia,
El ancla que se aferra a la muerte
Y a su vacío más puro.

Esta angustia por la fugacidad es visible en otros poemas como el número VIII en el que la casa es ahora metáfora del hombre: 

Y la casa se fue resquebrajando.
Fue como una fruta fresca,
Expuesta al maderamen de los días.
Entonces se fue hinchando para sí;
Se fue desmoronando sobre la arenisca de la noche.
Los dedos dolían tratando de frenar el precipicio,
Tratando de interrumpir lo inexorable:
Cuando algo está al borde del abismo
-como la muerte misma-
No hay ángel o demonio que detengan lo que Dios pone a rodar.

Lo inexorable es lo que no se puede detener: la vejez, la muerte.  En el poema V, “lo que Dios ha echado a rodar” es la vejez de la joven al que el poeta ama.  Ella está en el esplendor de la vida y no sabe que el tiempo ya está haciendo estragos. El poema termina con estos versos:

Mi joven amada me abraza:
No sabe que envejece
Mientras una hoja cae sobre el césped del solar.

Pasemos a considerar otro elemento importante que aflora como resultado de este concepto sombrío del tiempo. Me refiero al concepto del Otro y de la humanidad.  El hombre es definido como una víctima inocente del tiempo. En otras ocasiones es visto como una réplica del poeta. En el poema XV se afirma que,

En todas partes
Hay réplicas de uno mismo.
Es como si se repitiera la imagen
Sobre el espejo del río.

Y más adelante,

En todas partes hay sueños,
Vahos de un antiguo velero
Que desciende sin prisa
Por el recodo que conduce a la muerte.

No hay aquí la “otredad” que definiera Octavio Paz cuando dice que no somos nadie si no somos por los otros; yo soy porque tú existes y tu existencia le da sentido a mi vida. Lo que hallamos en las “réplicas” del poema es el infierno. Somos iguales en la medida que todos vamos a la muerte. 

Esta visión del hombre como víctima se ve amplificada en el poema X y XIV  cuando compara a la humanidad con un ejército hambriento y su lucha – el  militia est vita hominis super terra (La vida de los hombres sobre la tierra es lucha)- como una batalla contra el tiempo que conduce a la derrota.

El hombre
Es un pequeño saltamontes,
Bebe las ánforas humeantes:
Tiene la sed de un ejército,
El hambre de un ejército en los fracasos de la guerra.
(Poema X)

Y más adelante (poema XIV),

Las víctimas del tiempo
Son como las víctimas de la guerra;
El tiempo es una batalla que conduce a la derrota,
A la tormentosa entrega de quien expira.








Extrañamente, en el libro encontramos poemas que están fuera de la tiranía del tiempo. Quien conoce la obra poética de Winston, recuerda que sus dos primeros libros se denominaron Aniquirona y De regreso a Schuima.  ¿Qué hay en esos libros? Un lugar donde el tiempo y la lógica pierden su eficacia. En algunos poemas, por ejemplo, las piedras están perfumadas, son sabias y contienen hasta el canto de los jilgueros. El mundo de Shuaima se puebla de ríos y plantas vivas que dialogan con el poeta; y habita en esas tierras una mujer, Aniquirona, que parece estar hecha a la medida de sus sueños. Son libros de revelaciones en donde el tiempo lineal desaparece.

En ¿A dónde van los días transcurridos? aparecen poemas similares. Tienen tintes de revelaciones cósmicas; colocan al “Yo” angustiado fuera del tiempo finito y de la muerte. En el poema XVI, por ejemplo, el poeta se sumerge en “el río como en el tiempo”; pero este río ya no es el de Heráclito, es un río cósmico, pertenece al origen del universo. Al sumergirse atraviesa todas las edades, todos los hombres están en él, pasan a través de él; hasta el río Ganges deja de ser un río para ser el mismo poeta. He aquí unos apartes del poema XVI:

Me sumerjo en el río como en el tiempo.
A veces braceo en su contra,
Remonto al principio.
(…)
Todos los océanos
Vienen a mí
De las arterias de lo que soy.
Muchas veces me quedo quieto,
Suspendido en el delta de lo que simula la muerte,
Entonces veo la desembocadura:
Crisálidas y copas de vidrio que corren
Por los torrentes sonoros de los volcanes de sal.
A veces soy yo
El Ganges,
El agua que crece y se arremolina sobre la tarde.
(…)

¿Qué ha pasado? ¿Por qué de pronto el poeta ya no es ese hombre de madurez sombría que mira en el pasado ruinas y en el futuro el abismo de la muerte? Simplemente ha cambiado su percepción del tiempo y del mundo. Está en una dimensión diferente a la nuestra. ¿Pero es real esa dimensión o es sólo un delirio? Es posible que sea más real que esta vida cotidiana que llevamos. Desde oriente nos dicen que todos estamos dormidos y que debemos despertar. La película Mátrix nos empuja en ese despeñadero de la incertidumbre cuando descubrimos que todo lo que somos no es más que el software elaborado por una máquina para que vivamos conformes en este mundo.

Miremos otro ejemplo del “Yo” fuera de la tiranía del tiempo. El poema XXVI plantea la plena liberación de ese “Yo”. No existe en él una sola palabra sombría.  Escuchen lo que dice el poeta:

Yo soy
En la medida que existo
No importa que otros duden de eso;
Yo me sé
Y ocupo un lugar en el espacio,
Fuera del tiempo,
De cualquier curvatura que ponga en duda
Lo que fulgura en mi Zona de equilibrio.
Yo soy en la medida en que brillo;
Destilo una luz sempiterna
Que me hace,
Me refleja en un espejo sin sombra,
Cuando la luz se evapora por las orillas del alba
Y yo quedo,
Allí tendido,
Recostado sobre los alambiques de piedra.
En la medida de esa luz que se escapa
Y me hace uno con las estrellas
Yo soy.
La fugacidad nada tiene que ver con esto que huye.

No existe un poema más contrario a la tesis planteada desde el título del libro. Con este poema el poeta parece decir, ¿y a quién le importa los días transcurridos si yo estoy fuera del tiempo?. En este momento estoy vivo. Soy luz.  ¿Quién me pueda hacer daño?  

¿Cómo explicar este asunto tan raro, tan traído de los cabellos?. Yo quisiera retomar ese tema que discutimos al comienzo sobre la conciencia. La conciencia crea el concepto del tiempo. Pero, ¿ese concepto es real? ¿No será acaso una elaboración abstracta, un engaño de nuestra mente?[1] ¿En verdad los relojes marcan el tiempo o somos nosotros los que decimos que marcan el tiempo? ¿No será el reloj otro objeto indolente del universo de Pascal como el cielo raso que les puede caer en encima?

Consideren esto: ¿En verdad existe eso que llamamos pasado? ¿Existe ese tiempo que aún no termina de llegar llamado futuro? No será sólo fantasmas en nuestra cabeza. ¿El pasado y el futuro son tan reales como un perro al que se le toca la cabeza para que bata la cola? ¿Y si les propongo que pierdan todos sus recuerdos y sus expectativas de vida en este instante, qué les queda? Sólo quedan ustedes sentados en esas sillas y yo frente a ustedes diciéndoles que el tiempo lineal con su pasado, presente y futuro, no existe. Es sólo un método práctico para ordenar nuestro desempeño en el mundo. El presente es lo que realmente existe, es ahí en donde se está realmente vivo. Si permaneces con los ojos vueltos hacia atrás o hacia adelante dejarás de existir y empezarás a sufrir. Cuando estás en la línea del tiempo sufres. Cuando estás afuera, en este eterno presente te sentirás pleno. Podrás decir con el poeta:


Yo soy
En la medida que existo
(…)
Yo me sé
Y ocupo un lugar en el espacio,
Fuera del tiempo,
(…)
Yo soy en la medida en que brillo;
Destilo una luz sempiterna
(…)
Yo soy.
La fugacidad nada tiene que ver con esto que huye.

Yo les pregunto si hay dolor en estas afirmaciones. No lo hay porque la percepción del tiempo ha cambiado. El poeta elige vivir el presente que se levanta como una revelación mística. Hay en esto algo en común con lo que decía el filósofo Parménides de Elea sobre la eternidad. La eternidad, afirmaba, no es una duración infinita sino una negación del tiempo.
“El ser nunca ha sido ni será, porque es ahora todo él, uno y continuo”

Pero en ¿A dónde van los días transcurridos? presenta una variación al tema del “Yo” fuera del tiempo. ¿Hay otra forma de liberarse del tiempo lineal y finito? Sí. A través de la escritura, la poesía. En la contemplación de un cerezo o de una hoja, el poeta es el cerezo y también la hoja y al no ser él más que hoja o cerezo, el dolor mengua y el corazón se apacigua. En el poema XXVIII

Toda mi vida está en la hoja de un árbol
Por ella circula mi savia
Los ápices sanguíneos de lo que soy.

Este sosiego temporal frente al fluir de la vida es más evidente cuando habla de la cualidad terapéutica del poema que se escribe.  Escuchen el poema XX:

En la noche soy aquello que avizoro:
El poema,
La hoja en blanco,
La vela encendida que rumora con su voz incandescente;
Con su pequeña mecha de palabras mudas para mí.
Ante la hoja en blanco
Vuelvo a ser lo que he perdido,
Recupero esa vergüenza que me quito
Cuando camino como farola sin luz
Entre multitudes.


Creo que en el libro ¿A dónde van los días transcurridos? se refleja a cabalidad el tiempo lineal y el sentimiento del tiempo como lo había planteado en al inicio de mi intervención.   Sólo me resta hacer unas últimas afirmaciones. El libro es valioso y merece una lectura cuidadosa en la medida en que aborda el tema en mención sin traumatismo ni desgarramientos extremos. El poeta toma distancia y ve el fenómeno del tiempo como un médico examina un paciente; y sin embargo, como el de un hombre sensible que se contiene, espera que se aclare la palabra, brille por sí sola y emerja cargada de sentido. La palabra tiene su aliento. Su respiración. La palabra es honesta. Veo además un tono bien logrado y un libro redondo, como una fruta que se cierra sobre sí misma y madura.

A Winston, que ha sido amigo durante tantos años, le reitero mis agradecimientos por permitirme pensar en el fluir de la vida y le extiendo mis felicitaciones por el libro. Van mis buenos deseos para que coseche más éxitos.

Muchas gracias a todos ustedes por escucharme.




Jader Rivera Monje
Auditorio Banco de la República
Neiva, Huila.



[1] J.M.E. McTaggart. La realidad y el tiempo. 1908.

sábado, 28 de enero de 2017

Ascender al principio del lenguaje: la naturaleza como un lenguaje de símbolos en la obra de Winston Morales Chavarro








































Barbara Curzytek
Universidad Adam Mickiewicz, Poznań-Polonia.


Ascender al principio del lenguaje: la naturaleza como un lenguaje de símbolos en la obra de Winston Morales Chavarro


Introducción

El eje principal de la obra literaria de Winston Morales Chavarro es el interés por la realidad –o las realidades– diferentes al mundo material; la búsqueda de las verdades metafísicas, ocultas, intangibles, inaccesibles desde el punto de vista puramente científico o racional. En el presente texto pretendemos analizar la relación entre la naturaleza –entendida en un sentido más amplio como el mundo físico– y la realidad oculta, no material. Mediante el análisis de fragmentos de la obra poética de Winston Morales y apoyándonos en fragmentos de su texto ensayístico, nos aproximaremos a la tesis del autor de que la realidad material es un lenguaje universal que es preciso descifrar mediante una observación atenta para acceder a unas nuevas verdades que trascienden la dimensión física.

La poesía frente al pensamiento científico

El pensamiento científico es el que ha dominado la cosmovisión del ser humano contemporáneo, sobre todo occidental. Dicho pensamiento –a diferencia del pensamiento ”primitivo” según Ernst Cassirer (1987: 126) o mítico según Lévi-Strauss (preferiremos la segunda denominación), en el que el mundo es percibido y perceptible sólo en su totalidad–  recurre a la categorización y sistematización y tiende a analizar la realidad, sobre todo física, dividiéndola en fragmentos. (Cassirer, 1987: 126) Dicha fragmentación es tan grande que, al concentrarse en lo material, con mucha frecuencia se llega a suprimir la dimensión espiritual. Y sin embargo, según señala Winston Morales Chavarro en el primer capítulo de Poéticas del ocultismo, en los orígenes de la cultura, el único método de explicar el mundo, método anterior a la ciencia, ha sido la poesía, que recurre al sentir y a lo intangible:

Antes de categorizar el mundo y antes de sistematizarlo, la poesía era la única ciencia y también la única religión. Podemos afirmar que la poética estaba inmersa en saberes tan antiguos como la astrología y la alquimia, madres de la astronomía y química modernas. (2008: 18)

Así, en los orígenes de la cultura humana lo intangible siempre ha sido inseparable de lo material.
La poesía ha buscado, asimismo, explicaciones de los fenómenos imperceptibles por la razón, como la muerte, la vida o el amor, trascendiendo el mundo material:

La poesía nace como una forma de explicar el mundo, como una manera de interpelar al otro, así este otro sea invisible o divino –la poética significaba una comunión con fuerzas extraterrenales y extracorporales–, un apelar a la escritura para narrar no sólo las cosas de la lógica humana, sino aquellas que se escapaban a toda explicación racional o simbólica. (2008: 18)

Similar a la filosofía, que surge del asombro por el mundo, la poesía en sus orígenes ha buscado respuestas en la naturaleza, que posee un lenguaje cifrado. (2008: 20) En los orígenes de su cultura, el ser humano sabía interpretar dicho lenguaje; vivía en conexión y armonía con la naturaleza; se consideraba una parte de una red cósmica de interacciones, sólo un elemento dentro del universo compuesto tanto por lo material como por lo invisible:

Cada elemento del macrocosmos está conectado de manera inexplicable –para los ojos de lo racional– con cada partícula del microcosmos (lo humano). (2008: 20)

Dicha percepción total del universo se mantiene parcialmente en la cosmovisión latinoamericana, influida por las culturas indígenas y africanas, en las que no existe un límite claro entre la realidad material y otras dimensiones.  La dimensión habitada por los seres espirituales –ya sean dioses o entes de luz y oscuridad, ya sean fantasmas o almas de los antepasados muertos– coexiste con el mundo material, es inseparable del mundo físico y ambas realidades permanecen en una interacción constante. Sin embargo, también en el sincrético mundo latinoamericano comienza a prevalecer el pensamiento contemporáneo occidental:

La escritura se ha tecnificado, se ha vuelto racional, ha perdido su lenguaje primario, el lenguaje cifrado que le conectaba con el orden de lo sublime, con la esencia de sus sonoridades y expresiones. (2008: 24)

De ahí que el interés del poeta colombiano por el ocultismo y el esoterismo surja como „una resistencia contra el lenguaje mudo de la modernidad”. (2008: 24) Por consiguiente, Winston Morales comprende el papel del poeta como el de un vate (una especie de wieszcz; influencia clara de los poetas románticos) atento a los signos que emite el entorno; un aeda que sabe intepretar el lenguaje cifrado del mundo material. De esta forma, la observación de la naturaleza lleva a la revelación de una sabiduría oculta que radica fuera de la dimensión terrenal o material.




Aniquirona y Schuaima: mujer onírica y región inventada

Para aproximarnos a la manera en la que se realiza la búsqueda de lo espiritual, recurriremos, en primer lugar, al análisis de los fragmentos del poemario ”Aniquirona”, que consta de 26 poemas. Aniquirona, es una mujer soñada, un ente de luz, „hechicera hecha de luz” (2015: 14) inspirada, según afirma el autor, en sus visiones oníricas; es a ella a quien se dirige el sujeto lírico. Este personaje onírico habita la región inventada por el autor, llamada Schuaima, que el sujeto lírico visita para explorar la dimensión espiritual y para buscar el encuentro con Aniquirona. Este espacio se define en el poema XXII:

Schuaima es la nación
Donde todos los que se fueron han llegado. (2015: 43)

Por consiguiente, podemos constatar que Schuaima es un mundo o una dimensión que recibe a los que murieron en la dimensión terrenal. Sin embargo, no es un paraíso tal como lo entiende el cristianismo, que separa ambos espacios. Por el contrario, el sujeto lírico puede moverse libremente entre ambos mundos:

(...)
Llevo en mis bolsillos
El mapa transparente de tu tierra
Y puedo cruzar cuando me parezca.
(...) (poema XVI, 2015: 34)

Es, por lo tanto, un reflejo de la cosmovisión en la que las dos dimensiones permanecen en una interacción constante. Lo confirma la cita de Paul Eluard que Winston Morales escogió como el lema para otro libro de poemas suyo, La ciudad de las piedras que cantan: „Hay otros mundos, pero están en éste”.
Sin embargo, teniendo en cuenta las palabras del autor sobre la gran influencia que ha tenido en él la Biblia, no se puede rechazar por completo algunas asociaciones con el imaginario cristiano. En primer lugar, las descripciones de Aniquirona parecen inspirarse en Cantar de los cantares:

Aniquirona,  poema XXIV:

Con la transparencia del amor infatigable y ebrio
honraré tu collar de mariposa
tus labios de gaviota subceleste,
tu cabellera solitaria como un faro
(...)
Honraré tus senos de estatua grecorromana,
Tu boca refulgente
Como la hoguera del exilio
(...) (2015: 47)

Cantar de los cantares  (NVI 4: 1; 3-5):

Tus cabellos son como los rebaños de cabras
 que retozan en los montes de Galaad.
(...)
Tus labios son cual cinta escarlata;
 tus palabras me tienen hechizado.
Tus mejillas, tras el velo,
 parecen dos mitades de granadas.
Tu cuello se asemeja a la torre de David,
construida con piedras labradas;
de ella penden mil escudos
 escudos de guerreros todos ellos.
Tus pechos parecen dos cervatillos,
dos crías mellizas de gacela
que pastan entre azucenas.







Igual que en el Cantar de los cantares, el momento del encuentro con la mujer se aleja; Aniquirona huye y rehuye, parece inalcanzable. Esto, por su parte, sugiere una asociación con la poesía mística, también inspirada en Cantar de los cantares. El tema de la poesía mística es la búsqueda de la unión con Dios, representada como un encuentro íntimo con una mujer (o un hombre cuando el sujeto lírico es una mujer). Por consiguiente, Aniquirona también equivaldría a un ser de luz, aunque no solamente el ser supremo; es un guía espiritual que ayuda al sujeto lírico a comprender su dimensión aunque no mediante una conversación directa, sino, por el contrario, su presencia fugaz y unas revelaciones parciales. En un sentido más amplio, siendo un ser de luz (o lux, según prefiere el poeta), representa el conocimiento. Aniquirona es „el umbral de otros caminos” (2015: 9) y, según leemos en la dedicatoria a uno de los poemas del poemario, La ciudad de las piedras que cantan, es „Bienhechora en la Obscuridad” (2011: 43)
Igual que en la poesía mística, en Aniquirona, mientras dure la vida terrenal, la unión con el ente de luz puede darse sólo por unos momentos cortos y sólo será permanente y duradero después de la muerte. Sin embargo, a diferencia del sujeto lírico en la poesía mística, quien añora la muerte para lograr la unión perfecta con Dios (”muero porque no muero”), el sujeto lírico de la poesía de Winston Morales quiere seguir con la vida terrenal y se conforma con el conocimiento fragmentario que descubre durante sus visitas en Schuaima:

(...)
Pero no amo el suicidio
Pienso que es un pretexto de la vida
Para buscarte demasiado pronto
(...)
Déjame partir amada forastera
El tren de Schuaima sale a las nueve
Y yo aún conservo tres tiquetes de regreso. (poema XVI, 2015: 34)

La diferencia primordial entre la poesía mística y la poesía de Winston Morales es que, mientras en la primera para lograr la unión con Dios es preciso deshacerse de lo material y del mundo de los sentidos para conocer la plenitud de Dios (o de la luz), en la obra del poeta colombiano son precisamente los sentidos y la lectura atenta del mundo físico la herramienta principal para acceder a lo espiritual. No se trata de suprimirlos, sino de utilizar los sentidos para trascender las cosas y entender su verdadera naturaleza y su lenguaje pre-idiomático; para ascender al principio del lenguaje. Es un objetivo que se anuncia en el poema que abre el ciclo sobre Aniquirona:

Y estoy buscando las voces del camino
Para traducirlas
Seguro llevarán tu nombre
He aprendido a interpretar la voz del viento
Esa misma que arrulla las hojas entreabiertas
De tu árbol.
(...)
Al cuenco de mis manos
Llega impetuoso el sol
Con el oro y el trigo de tu cima
¿Debo ascender al principio del lenguaje? (poema I, 2015: 9)

Al emprender el camino se nota cierta timidez y falta de seguridad (suposición: „seguro llevarán tu nombre” y pregunta: „¿Debo ascender al principio del lenguaje?”), pero en el siguiente poema se continúa con la misma idea, ya con más contundencia („sólo así que existo”):

(...)
Sigo las hojas que corretean presurosas
Sigo la lluvia y su música húmeda
Sigo los pájaros y sus ondas
Hay una aproximación entre el lenguaje de los árboles
Y el mío.

Sólo así puedo acercarme
Sólo así sé que existo
Y que el camino no es camino
Sino va cargado de palabras y de voces.
(...) (poema II, 2015: 10)


Además, en el poema El lenguaje, perteneciente a otro poemario de Winston Morales, De regreso a Schuaima, leemos:

Al evocar el sonido de esta Terra
El campo abierto
Conduce a la polifonía del bosque.
Allí el lenguaje es instintivo
Pre-idiomático
(...) (2013b: 165)

Asimismo, en el poema El diablo del poemario Temps era temps se expresa claramente que descifrar el lenguaje de los objetos es comprender su verdadera naturaleza puesto que dicho lenguaje es inherente a las cosas:

...El lenguaje de la palma no es un lenguaje
Por lo menos no articulado.

El lenguaje es inherente a ella.
Como el verde a la hoja.
El lenguaje
-Su vibración-
Mana de ella,
De su esencia,
Su substancia.
(...) (2013a: 201)

De ahí que la naturaleza no sea un lenguaje de símbolos, puesto que un símbolo es arbitrario y remite a una realidad externa a él. Por el contrario, el lenguaje es un rasgo inherente de los elementos del mundo material y descifrarlo equivale a conocer la verdadera naturaleza de dichos elementos. Por lo tanto, el mundo de la naturaleza permite comprender a Aniquirona, que encarna el conocimiento sobre la esencia de las cosas:

(...)
A través de la interminable,
De la imperecedera
De la futurista naturaleza
Te veo tal como eres. (Aniquirona, poema IX, 2015: 22)

Esos esfuerzos para adentrarse en el conocimiento que trasciende lo material podrían interpretarse como un intento de mirar más allá de las sombras en la pared de la cueva de Platón; de dar la vuelta hacia la luz y tratar de ver la idea -lo real-, y no sólo su reflejo, reflejo que equivaldría a la dimensión física, en la que suele enfocarse el pensamiento científico contemporáneo, olvidándose del principio del lenguaje.



Conclusiones

La poesía de Winston Morales Chavarro recurre al esoterismo y ocultismo como un intento de rescatar el aspecto espiritual en el mundo contemporáneo y pretende mirar más allá de la superficialidad de concentrarse sólo en la realidad física. Para ello, el poeta se sirve de la observación atenta del mundo que lo rodea para descubrir unas verdades que trascienden la dimensión física. Contrario a la hipótesis planteada en el título del presente texto, la naturaleza no es un lenguaje de símbolos (no remite a una realidad externa; otros mundos tampoco son unas dimensiones externas, sino que están en éste), puesto que posee un lenguaje inherente a ella y descifrar dicho lenguaje equivale a conocer la verdad sobre las cosas, a salir de la cueva de Platón y tratar de ver esa verdad en su totalidad, y no sólo sus reflejos en el mundo material. Sin embargo, el conocimiento completo y perfecto no es posible antes de la muerte, pero aun así, mientras dure la vida, se pueden hacer intentos de adentrarse en otras dimensiones para lograr por lo menos un conocimiento parcial y rescatar el aspecto espiritual frente al pensamiento científico, cuya predominación en el mundo contemporáneo hace que el ser humano se olvide de las raíces de su naturaleza y puede llevar, mediante una tecnificación y tecnologización excesiva, a la pérdida de la esencia de la humanidad.


Bibliografía

a)      Corpus de textos analizados

1.      MORALES CHAVARRO, W. (2013a): El diablo, en: L. Gutiérrez Riveros, N. Romero Guzmán, W. Morales Chavarro, H. Vargascarreño, A. Berger-Kiss (eds.), „Mientras el tiempo sea nuestro”, Bogotá: Ediciones Exilio, pp. 201-202
2.      MORALES CHAVARRO, W. (2013b): El lenguaje, en: L. Gutiérrez Riveros, N. Romero Guzmán, W. Morales Chavarro, H. Vargascarreño, A. Berger-Kiss (eds.), „Mientras el tiempo sea nuestro”, Bogotá: Ediciones Exilio, p.165
3.      MORALES CHAVARRO, W. (2015): La Dulce Aniquirona, Cartagena de Indias: Comunicadores UdeC

b)      Referencias

1.      Cantar de los cantares, Bible Gateway: Nueva Versión Internacional (en línea), https://www.biblegateway.com/passage/?search=Cantares+1&version=NVI [consulta: 07.11.2016]
2.      CASSIRER, E. (1987): Antropología filosófica. Introducción a una filosofía de la cultura. México: Fondo de Cultura Económica, p. 126
3.      ESTÉBANEZ CALDERÓN, D. (2004): Mística, en: idem, „Diccionario de términos literarios”, Alianza Editorial, pp. 677-680
4.      LÉVI-STRAUSS, C., Pensamiento “primitivo” y mente “civilizada” (en línea), http://www.internet.com.uy/arteydif/SEM_UNO/PDF/pensamiento.pdf [consulta: 07.11.2016]
5.      MORALES CHAVARRO, W. (2011): La ciudad de las piedras que cantan, Ibagué: Caza de Libros

6.      MORALES CHAVARRO, W. (2008): Poéticas del ocultismo en las escrituras de José Antonio Ramos Sucre, Carlos Obregón, César Dávila Andrade y Jaime Sáenz, Bogotá: Trilce Editores